L’esito del ballottaggio sarà decisivo per il futuro dell’Amazzonia e per le sue popolazioni autoctone. Se Jair Bolsonaro vincerà un altro mandato, il polmone verde del Pianeta potrebbe essere prossimo ad un cambiamento irreversibile, oltre il quale le conseguenze saranno catastrofiche; ma se ad assumere il nuovo incarico sarà il leader di sinistra Luis Inácio Lula Da Silva, potrebbe esserci ancora spazio d’azione e speranza.
Il Brasile si prepara al secondo turno
Il 2 ottobre scorso, oltre 150 milioni di cittadini brasiliani sono stati chiamati alle urne non soltanto per eleggere il Presidente ed il Vicepresidente della Repubblica, ma anche per rinnovare i governatori dei 27 Stati (compreso il Distretto Federale di Brasilia), i 513 seggi alla Camera dei deputati e un terzo degli 81 di quelli del Senato. Tra gli 11 candidati alla Presidenza, nessuno ha ottenuto la maggioranza assoluta (50%+1), per cui sarà il ballottaggio, fissato per l’ultima domenica di ottobre, a decretare il vincitore. A contendersi la guida del Paese saranno Luiz Inácio Lula da Silva, icona della sinistra sudamericana e fondatore del Partido dos Trabalhadores (PT), e l’ultraconservatore Jair Bolsonaro del Partito Liberale. Con il 48,4% dei consensi, il leader progressista non è riuscito a strappare la vittoria al Presidente uscente che, oltre ad aver ottenuto un sorprendente 43,2% delle preferenze, ha vinto anche nel voto per le legislative, con il risultato che il fronte bolsonarista è ancora “vivo e forte” nel Congresso nazionale. Secondo gli analisti di Bloomberg, a pesare sul risultato elettorale sarebbero stati non soltanto gli indecisi, ma anche il tasso di astensione, salito di 0,6 punti percentuali rispetto al 2018 (20,94% vs 20,3%), danneggiando principalmente il fronte di sinistra.
La sfida è dunque apertissima. Sono soltanto 6 milioni di voti a dividere i due candidati che, nelle scorse quattro settimane hanno intensificato il dibattito, concentrandosi più sui meriti dei rispettivi governi e sugli errori di quelli dell’avversario, che sulle proposte di riforma.
La questione ambientale
Fra gli argomenti che hanno animato la campagna elettorale spunta una questione un tempo di secondo piano per i cittadini brasiliani: il futuro dell’Amazzonia. Stando ad un recente sondaggio condotto dall’International Institute for Democracy and Electoral Assistance (IDEA) e pubblicato dall’ONG Nossas, il 64% degli intervistati ritiene che il polmone verde del Pianeta sia un tema cruciale della corsa ai voti.
La questione ha acquisito sempre maggior rilevanza a causa del peggioramento delle condizioni ambientali di cui è stato vittima il Brasile negli ultimi quattro anni, ovvero da quando Jair Bolsonaro ha vinto le elezioni presidenziali del 2018. Da allora, per via del suo scetticismo nei confronti del cambiamento climatico e della sua vicinanza a potenti figure dell’agrobusiness, si è assistito allo snellimento di alcune norme a tutela dell’ambiente, all’indebolimento delle istituzioni chiave di controllo e all’approvazione di una serie di misure che hanno deregolamentato i settori dell’agricoltura e della silvicoltura, contribuendo così all’aggravamento della situazione.
Secondo il rapporto Dangerous man, dangerous deals dell’associazione ambientalista Greenpeace – che si basa sui dati raccolti dall’Istituto nazionale di ricerche spaziali del Brasile INPE (Instituto Nacional de Pesquisas Espaciais) – sotto l’amministrazione del leader conservatore, la deforestazione è aumentata del 75,6%, gli allarmi per gli incendi forestali del 24% e le emissioni di gas climalteranti del 9,5%. Soltanto tra agosto 2020 e luglio 2021 sono stati distrutti più di 13.235 km2 di foresta pluviale, mentre nei primi sei mesi del 2022 si è raggiunto il picco di 3.980, l’equivalente di un’area cinque volte più grande di New York City. L’impunità che ha accompagnato la crescente deforestazione ha comportato anche un aumento del numero degli incendi che, molto spesso sono stati appiccati illecitamente per incoraggiare l’espansione del settore estrattivo e dell’agricoltura industriale, concorrendo così al rilascio di quantità sempre più ingenti di gas a effetto serra. “Quello a cui stiamo assistendo è la fine dell’Amazzonia”, ha affermato Angela Kuczach, direttrice della Rede Nacional Pró Unidades de Conservação “[…] Non possiamo più dire che la perderemo tra 20 o 30 anni; la stiamo già perdendo in questo momento”.
Il Paese ha dunque bisogno di una svolta, anche piuttosto urgente e la vittoria di Lula potrebbe essere una buona notizia per il futuro del polmone verde. Sin dal suo primo mandato, infatti, il leader progressista ha profuso numerosi sforzi per l’ambiente. Basti pensare che dal 2003 al 2011, grazie ad una serie di iniziative, fra cui l’istituzione del Fondo mondiale per l’Amazzonia e la creazione di aree di conservazione e riserve indigene, la deforestazione era diminuita dai 27.700 km2 all’anno ai 4.500.
La questione indigena
Un’altra questione strettamente collegata alla questione dello sfruttamento ambientale, che ha diviso il mondo politico brasiliano e anche l’opinione pubblica negli ultimi anni, riguarda la demarcazione territoriale. Fin dal 2016 è in corso un processo presso il Supremo Tribunale Federale riguardo al marco temporal, ovvero la tesi secondo cui i popoli indigeni avrebbero diritto solo alle terre che già occupavano al momento della promulgazione dell’attuale Costituzione federale, del 5 ottobre 1988.
Il problema di fondo che ha portato le comunità indigene a radunarsi ripetutamente in protesta a Brasília presso il Palácio do Planalto, sede del Congresso brasiliano, ruota attorno al fatto che, durante il ventennio di dittatura militare (1964-1984), le popolazioni originarie sono state cacciate da numerosi territori che erano di loro appartenenza e non esistono documenti certi che demarcano storicamente quali sono le loro terre. Inoltre, i rappresentanti del settore rurale legato all’agrobusiness hanno avanzato il Progetto di legge 409/2007 che mira a modificare l’Estatudo do Índio del 1973, facendo passare dal Potere esecutivo a quello legislativo la facoltà di dirimere rispetto alla demarcazione delle terre indigene: l’approvazione di questo PdL comporterebbe automaticamente l’adozione del marco temporal, dal momento che il Congresso è a maggioranza conservatore ed orientato verso le posizioni dei proprietari terrieri. Di conseguenza, si assisterebbe alla cacciata di molti popoli indigeni da terre che reclamano essere originariamente di loro proprietà.
Oltre ad avere una facciata politica, la questione delle riserve indigene tocca anche l’ambito della sicurezza. Si sono ripetuti costantemente negli ultimi anni episodi di violenza contro i rappresentanti delle popolazioni indigene che vanno dalla cacciata dalle riserve in cui vivono fino all’omicidio. Si è infatti intensificata la lotta contro garimpeiros, accaparratori di terre, narcotrafficanti e altre forme di organizzazioni criminali che hanno approfittato della riduzione dei controlli ed interventi statali per espandere i loro traffici nella regione amazzonica.
Il presidente Bolsonaro durante il suo mandato si è schierato apertamente a favore dei ruralisti, cercando di limitare l’espansione delle riserve indigene, riducendo i poteri della Funai (Fundação Nacional do Índio) e sostenendo missioni esploratrici per incentivare estrazione e agricoltura. Le sue dichiarazioni pubbliche sono state spesso avverse alla causa indigena, basandosi su una ideologia profondamente nazionalista secondo la quale, dal momento che gli indigeni si considerano brasiliani, devono essere inglobati nella società brasiliana, in un processo che li porterebbe a perdere quelle caratteristiche tradizionali e culturali che li contraddistingono.
Dal canto suo invece, Lula si è schierato a favore della tutela del patrimonio indigeno sia a livello territoriale sia culturale, come ha dichiarato in una recente intervista a Canal Rural: “Se vogliamo mantenere la cultura indigena, abbiamo bisogno che [gli indigeni] abbiano più terra”. Il sostegno alla causa dei popoli originari ha garantito al leader del PT il supporto della comunità indigena: il 13 ottobre infatti l’Articolação dos Povos Indígenas do Brasil ha dichiarato il proprio sostegno a Lula nel secondo turno elettorale.
Quali promesse hanno sostenuto i due fronti?
Il presidente Bolsonaro ha dedicato un intero capitolo nel suo programma elettorale alla tematica della sostenibilità ambientale, individuando come obiettivo fondamentale la promozione della conservazione e dell’uso sostenibile delle risorse naturali, “conciliando la salvaguardia dell’ambiente con lo sviluppo economico e sociale”. Le questioni degli incendi nell’Amazzonia e del garimpo, ovvero le estrazioni illegali di minerali, vengono individuate come problemi fondamentali per la sicurezza ambientale del Paese; nonostante questa consapevolezza, il leader conservatore continua a mantenere un atteggiamento negazionista rispetto alla decadenza ambientale vissuta dal Brasile durante il suo mandato e testimoniata scientificamente da centri di ricerca come la brasiliana INPE. A tale proposito, durante il discorso in occasione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Bolsonaro ha ribadito che “nell’Amazzonia brasiliana, oltre l’80% della foresta rimane intatta, contrariamente a quanto riportato dai principali media nazionali e internazionali”. Restano ambigue anche le dichiarazioni rispetto ai popoli indigeni le cui peculiarità culturali e tradizioni devono essere rispettate “purché non implichino una violazione dei diritti umani”, secondo quanto dichiarato nel suo programma elettorale.
Lula dal canto suo ha espresso la forte necessità di difendere i popoli indigeni dagli abusi subiti sotto la legislatura di destra, promettendo di garantire e valorizzare la loro cultura tramite un ripristino del FUNAI e la nomina di un Ministério dos Povos Originários a guida indigena. Nelle sue dichiarazioni di campagna elettorale uno spazio importante è stato lasciato alla promessa di “combattere l’uso predatorio delle risorse naturali e incoraggiare le attività economiche a minor impatto ecologico”, recuperando l’efficacia delle capacità statali, della partecipazione sociale, e rafforzando il Sistema Nazionale dell’Ambiente e il Funai. Alcuni esperti hanno comunque evidenziato come, a livello pratico, manchino comunque delle proposte concrete di azione per portare a compimento le suddette proposte. In ogni caso, i passati successi del PT nel ridurre drasticamente la deforestazione (fino al 72% durante il mandato di Dilma Rousseff tra il 2004 e il 2016) sono fonte di incoraggiamento.
Sfide per il futuro
Il risultato delle elezioni generali di domenica sarà decisivo per il futuro dell’Amazzonia. È quanto emerge da un’analisi condotta per CarbonBrief da alcuni ricercatori dell’Università di Oxford, dell’INPE e dell’Istituto internazionale per l’analisi dei sistemi applicati (IIASA). Secondo gli esperti, sotto la direzione di un secondo governo Bolsonaro, la foresta pluviale amazzonica potrebbe essere vicina ad un punto di svolta ormai irreversibile, oltre il quale degraderebbe in una savana secca, incapace di riprendersi da siccità, smottamenti ed incendi. Al contrario, se ad aggiudicarsi la vittoria sarà il leader del PT Luiz Inácio Lula da Silva, nei prossimi dieci anni la piaga della deforestazione potrebbe diminuire dell’89%, evitando così la perdita di 75.960 km2 di territorio, un’area grande all’incirca quanto la nazione di Panama. In questo modo, verrebbero tutelati anche i diritti delle popolazioni indigene, le cui sorti sono strettamente legate alla protezione della foresta. Eppure, anche in questo caso, la strada da compiere per invertire la rotta non sarà priva di insidie. Come scrive Benedetta Oberti, editorial trainee presso l’Istituto degli Studi di Politica Internazionale, “[…] un eventuale governo Lula si troverebbe a dover scendere a patti con la lobby dell’agrobusiness, il cui giro d’affari non è ignorabile, così come non lo è il potere all’interno del Congresso”. Inoltre, coloro le cui attività criminali hanno prosperato sotto Bolsonaro non si fermeranno semplicemente perché c’è un nuovo governo in atto.
A cura di Mirida Mabel Mujica e Giada Vair