Per secoli si è stati abituati a immaginare l’America Latina come una regione profondamente e pressoché interamente cattolica. Negli ultimi decenni le cose sono cambiate: il cattolicesimo latinoamericano si trova da tempo in profonda crisi mentre sempre più persone si convertono al protestantesimo. Il peso crescente esercitato dalle chiese protestanti in America Latina trascende la sfera religiosa e si fa sentire oggi non solo negli affari interni di molti Paesi ma anche sui loro rapporti internazionali. L’influenza del protestantesimo nella regione appare con ogni probabilità destinata a crescere nel prossimo futuro e potrebbe contribuire in modo decisivo a ridefinire gli equilibri politici e geopolitici dell’intero continente.
Un’America Latina sempre meno cattolica e sempre più protestante
Tra le trasformazioni sociali che negli ultimi decenni hanno cambiato il volto dell’America Latina, una delle più significative riguarda la religione. La Chiesa cattolica, tradizionalmente egemone nella regione fin dai tempi della conquista spagnola e portoghese, ha visto negli ultimi 50 anni ridursi in modo drastico il proprio peso all’interno della società: se nei primi anni ‘70 ancora un buon 90% dei latinoamericani si dichiarava cattolico, negli ultimi anni tale percentuale si è ridotta, secondo le stime più generose, a circa il 65%. Dei milioni di latinoamericani che nel corso di questi decenni si sono allontanati dal cattolicesimo, solo una parte minoritaria si è spostata verso l’ateismo, mentre la grande maggioranza si è convertita al protestantesimo, aderendo soprattutto a movimenti evangelici e pentecostali. Le chiese protestanti, fino agli anni ’70 trascurabili, raccolgono oggi circa un latinoamericano su cinque, registrando i numeri più considerevoli in Brasile (26%) e America Centrale: 30% in Nicaragua, 35% in El Salvador, 38% in Guatemala, 44% in Honduras, primo Paese della regione in cui la percentuale dei protestanti ha superato quella dei cattolici.
Alle origini di due tendenze opposte
Il declino della Chiesa cattolica in America Latina passa per almeno due momenti di crisi. Una prima fase convulsa, iniziata alla fine degli anni ’60, coincise con le divisioni sorte all’interno del clero in seguito allo sviluppo e alla diffusione della Teologia della Liberazione. Con l’intensificarsi in quel periodo delle contestazioni all’ordine sociale costituito, la Teologia della Liberazione fu un movimento che si impegnò per una giustizia sociale che fosse coerente con i dettami del Vangelo. La promozione della liberazione dell’uomo dalle strutture sociali oppressive ne facilitò un accostamento con l’ideologia marxista nel pieno sviluppo della Guerra fredda.
In tempi più recenti, un secondo momento di crisi è legato al noto scandalo degli abusi sessuali all’interno della Chiesa, esploso soprattutto a partire dal pontificato di Benedetto XVI e che ha causato tanto discredito al cattolicesimo latinoamericano e non solo. In entrambi i casi, i missionari protestanti hanno saputo approfittare della debolezza della Chiesa di Roma intercettando meglio di altri il disagio diffuso tra i fedeli, facendo massiccio proselitismo e radicandosi con successo nella società. La presenza sempre più pervasiva del protestantesimo si può evincere oggi persino dal paesaggio: negli ultimi anni sono sorte in varie parti della regione, dall’America centrale al Brasile, numerose “megachiese”, ovvero enormi edifici di culto fatti erigere e animati da pastori e predicatori carismatici spesso a capo di veri e propri piccoli imperi economici e mediatici, sulla falsariga di quanto accade negli Stati Uniti.
Il ruolo e gli interessi degli Stati Uniti
Proprio gli Stati Uniti sono sempre stati il vero punto di riferimento di tutto il protestantesimo latinoamericano. I protestanti statunitensi, dal canto loro, hanno sempre riservato un’attenzione particolare all’America Latina, investendo molte risorse nelle missioni locali. Si tratta di un impegno che non si limita alla sfera meramente religiosa ma che sconfina anche nella politica, legandosi strettamente agli interessi strategici nella regione. Washington ha da sempre mal tollerato l’influenza del Vaticano sul continente, essendosi schierata contro l’ingerenza nelle Americhe di potenze esterne fin dai tempi della dottrina Monroe, enunciata nel 1823. Il presidente Theodore Roosevelt vi aggiunse una sorta di corollario nel 1912, affermando che «finché i Paesi [dell’America Latina] rimarranno cattolici, la loro assimilazione agli Stati Uniti sarà un compito lungo e difficile». La prospettiva, rispetto a un secolo prima, era mutata: la Chiesa cattolica era ormai vista non più solo come una sgradita ingerenza esterna negli affari americani ma anche come un ostacolo alle ambizioni egemoniche di Washington sul continente.
Sul finire degli anni ’60, con lo sviluppo della Teologia della Liberazione e l’affermarsi, in piena Guerra fredda, di un cattolicesimo più progressista, la posizione degli Stati Uniti in merito al ruolo della Chiesa di Roma nella regione si fece ancor più dura. Nel 1969, alle prese con le riflessioni dovute al contesto bipolare, il futuro vicepresidente statunitense Nelson Rockefeller nel suo Rapporto sulle Americhe ammonì la Casa Bianca riguardo al pericolo rappresentato dallo spostamento a sinistra della Chiesa cattolica latinoamericana. Gli Stati Uniti intensificarono così, anche in chiave anticomunista, la loro strategia di protestantizzazione dell’America Latina, processo che non si è arrestato, ma che al contrario si è accentuato, con la fine della Guerra fredda.
Gli effetti della protestantizzazione in politica estera e interna
Se Washington mirava, attraverso la diffusione del protestantesimo, ad avvicinare gli Stati della regione alla propria politica, i fatti sembrano darle ragione. Ad esempio, tra i pochi governi al mondo che hanno seguito l’amministrazione Trump nella decisione di spostare la propria ambasciata in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme, i primi sono stati quelli di Honduras e Guatemala, non a caso i due Paesi con la più alta concentrazione di protestanti di tutta l’America Latina.
Detto degli effetti sulla politica estera, il radicarsi del protestantesimo nella regione ha anche sensibilmente spostato a destra l’asse politico in molte nazioni, specie su questioni etico-sociali come l’aborto, ancora proibito in buona parte del continente. I protestanti tendono infatti ad essere più osservanti dei cattolici e quindi ad attribuire un maggior peso alla religione nelle questioni riguardanti la vita pubblica. Essi rappresentano ormai una forza tutt’altro che trascurabile, spesso anzi decisiva, anche dal punto di vista elettorale. Ad esempio, è stato calcolato che il voto evangelico sia stato determinante nell’elezione di Bolsonaro alla presidenza del Brasile nel 2018, e non è un caso che la mobilitazione politica dei protestanti sia stata uno degli elementi cardine della strategia bolsonarista in occasione della campagna per la rielezione del 2022.
Quali prospettive per il futuro?
L’influenza del protestantesimo sulla vita politica di molti Paesi dell’America Latina è un fenomeno destinato con ogni probabilità ad accentuarsi nei prossimi anni. I dati indicano che l’evangelicalismo è la religione con il più alto tasso di crescita del continente, mentre il cattolicesimo è quella in più rapido declino. Se ciò rappresenta, per le ragioni di cui si è detto, una buona notizia per gli interessi politici e strategici degli Stati Uniti, altrettanto non si può dire del Vaticano, che rischia seriamente di perdere la propria egemonia spirituale sulla regione che, nonostante tutto, ospita quella che è ancora di gran lunga la sua più grande comunità di fedeli, raccogliendo il 40% dei cattolici del mondo. Qualora il cattolicesimo divenisse un giorno minoritario in America Latina, si tratterebbe di un evento la cui portata trascenderebbe il piano strettamente spirituale e che contribuirebbe a riconfigurare in un modo del tutto inedito gli assetti geopolitici dell’intero continente.
Di Andrea Segalini
In foto: “Casa de Dios”, megachiesa in Guatemala