Cosa accadrebbe se improvvisamente, da un giorno all’altro, la vita come la conosciamo svanisse completamente? Dalla tecnologia all’arte, dal petrolio all’energia, fino alla vita stessa. Mauro Corona presenta un racconto, a tratti comico, filosofico ma anche drasticamente reale, sulla fine del mondo storto.
di Sara Gasperini
C’era una volta un paesino nella valle del Vajont
Maurizio Corona, in arte Mauro, nasce il 9 agosto del 1950 a Pinè, in provincia di Trento. La madre, con l’aiuto di un carretto, vendeva utensili sulla strada tra i paesi di Erto e Pinè. Un vero e proprio pellegrinaggio di 140 chilometri, durante il quale il piccolo Maurizio viene dato alla luce in quello stesso carretto. Tra avventure e “grane” (così come chiamate dallo stesso scrittore), Maurizio Corona cresce tra Baselga di Pinè ed Erto, il suo vero paese di origine. La sua natura di “uomo di montagna” si deve alle sue radici: fin da bambino accompagna il padre nelle battute di caccia, impara l’arte della scultura lignea dal nonno, e si dedica alla lettura genuina della letteratura di tutto il mondo.
La passione per l’alpinismo e quella per la scrittura diventano ben presto due facce della stessa medaglia, dell’indole che contraddistingue la vita di Mauro Corona. Le sensazioni, le persone, l’aria e la vita di montagna sono completamente differenti rispetto a quelle della città. Questo, come sottolinea spesso nei suoi libri, è tutta un’altra storia. Un racconto antico e profondo, intimo di quella natura che nelle zone montuose regna sovrana, dove ancora viene salvaguardata al riparo dal feroce abbattimento di qualsiasi cosa che non provenga da mani d’uomo.
«Era una vita a contatto con la natura e con gli elementi della terra. Fin da bambini ci mandavano da soli in fondo alla valle del Vajont a raccogliere legna da ardere. Ricordo che facevo decine e decine di viaggi, sempre di corsa. Scendere era facile, tutta discesa. Ma salire carichi non era uno scherzo! È da allora che ho imparato ad amare la fatica. Se quella fatica non te la facevi amica, ti annientava».
Mauro Corona conosce bene le leggi della natura, che possono dare ma anche riprendersi tutto in un solo istante. A tredici anni vive in prima persona il disastro del Vajont, ferita profonda che lo accompagnerà per tutta la vita lasciando un senso di patria perduta. Il sentimento nostalgico che prova non è molto lontano dalle pagine del libro La fine del mondo storto, del 2010 e vincitore del Premio Bancarella (2011) e del Premio Mario Rigoni Stern (2014).
Ma quale mondo storto?
“Ci vuole sempre la disgrazia per aprire gli occhi alla gente”. La sventura con cui comincia la fine del mondo storto è la scomparsa del petrolio, così come qualsiasi altro combustibile per la produzione di energia. In poche parole spariscono tutte le risorse, le agevolazioni che rendono la vita del ventunesimo secolo tale. Non più luce, non più gas, non più riscaldamento, nessun trasporto, solo e semplicemente un nulla assordante.
I protagonisti della storia sono gli uomini che vengono privati dal giorno alla notte di ogni punto di riferimento che avevano, i punti cardinali di sfruttamento e consumismo che li caratterizzavano in maniera così perentoria. Dall’altra parte però, la natura oramai stanca, usurpata e dimenticata si trasforma in nemica agli occhi dell’uomo che deve cominciare a combattere per la propria sopravvivenza.
“«Ah, Signore benedetto, perché hai mandato questo castigo?» – «Ve lo siete costruito voi» dice il Signore, «non l’ho mandato io.» – Di colpo tutto ciò che era creduto essenziale si rivela inutile. E questa nuova e fatale consapevolezza, unita all’incapacità di fare qualcosa con le mani, dissemina il terrore tra la gente”. Improvvisamente l’apocalisse raccontata in alcune storie di fantascienza, nelle pellicole visionarie, diventa realtà. E l’uomo deve fare i conti con i risultati delle proprie scelte di vita, del proprio passato scandito dalla solita rassicurazione “quando ci arriveremo, ci penseremo”.
Così come scompare ogni forma di sussistenza cui l’uomo era abituato, sparisce ogni divisione sociale, per cui i ricchi pieni di soldi non vedono altra scelta se non quella di bruciarli. Perché la fine del mondo storto avviene durante l’inverno, e l’unica arma contro il freddo è il fuoco per scaldarsi. “Quell’inverno è da castigo. Non di Dio ma degli uomini. Gli uomini si sono castigati da soli. Hanno cominciato a castigarsi quando hanno smesso di adoperare le mani e di conseguenza anche il cervello. Si sono castrati da soli, non sanno più nemmeno accendere un fuoco”.
Lo scrittore delinea prima il panorama terribile delle grandi città, dove le persone “non sono capaci di usare la natura per vivere”, e successivamente descrive quei luoghi lontani dal tran tran cittadino. In quel duro inverno “si salva la gente di montagna e di campagna, ma non tutta. Solo quella di una certa età. Le ultime generazioni con le mani non sanno fare niente. Per muover le mani s’intende saper fare lavori antichi. Quelli che, cinquant’anni fa conoscevano tutti. Tagliare legna, spaccarla, accendere il fuoco. Ammazzare una gallina, spennarla, filare la lana, fare a maglia. Eseguire lavori di artigianato. Più importante ancora, coltivare la terra, seminare gli orti, i campi, falciare, seccare il fieno, costruire mulini per macinare la farina. Saper tagliare il bosco al tempo giusto. Oppure conoscere le erbe, quelle per guarire, quelle da mangiare. Riconoscere i funghi buoni da quelli velenosi, le bacche, i frutti selvatici, Insomma lavori così. Invece, di questa cultura salvavita non sa più niente quasi nessuno. Solo qualche vecchio montanaro o contadino di pianura, il resto zero”.
Due quaderni per la rinascita del mondo (storto)
Mauro Corona racconta la sua storia, che poi è quella del mondo, attraverso la divisione in due quaderni. Entrambi hanno la particolarità di terminare con la parola “amen”. Se si analizza l’etimologia di questa parola, essa deriva dall’ebraico e significa “essere sicuri o certi di qualcosa”. Lo scrittore crede fermamente nella sua visione del mondo (storto), di ciò che era prima della sua fine e di ciò che sarà poi.
La caratteristica principale di questo romanzo risiede nella struttura narrativa e narrante. Il racconto viene ambientato in un luogo nel mondo di cui non si offre nome né coordinate geografiche. È un posto che potrebbe essere la città in cui si vive, oppure quella situata dall’altra parte del globo. Non si conosce l’identità geografica, ma si conoscono le persone che ci vivono, tutte uguali alle altre in posti diversi. La cosa importante è come un qualsiasi luogo, di cui non è quindi necessario fornire un nome, diventi universale sia per le sue sorti che per ciò che vi avviene.
L’unica distinzione che Mauro Corona compie a livello geo-identitario risiede nella separazione tra città e campagna o montagna, e di quest’ultima tra vecchia e nuova generazione. La voce dell’autore inizialmente appare esterna, oggettiva, isolata da quello che sta raccontando. Ma ben presto si trasforma, mescolandosi con la voce narrante che giudica, miete le sue vittime senza pietà, e diventa in alcuni punti molto soggettiva. L’autore-narratore, onnisciente, non si identifica con i gruppi sociali rappresentati nella sua storia, nella sua versione dei fatti della fine del mondo storto.
Così come i giornalisti scampati all’apocalisse che scrivono sui muri le cronache dei giorni che passano, Mauro Corona descrive “le tragiche testimonianze della frenetica corsa al produrre, dell’imperativo del sempre più”. Alla fine di tutto, dopo la fine di quel mondo, in seguito alla rinascita dell’equilibrio tra uomo e natura, l’indole di animale (sociale) dell’umanità prende nuovamente il sopravvento. Non può valere la “saggia formula del non si sa mai”, perché l’uomo non è capace di applicarla, non riesce a stare in pace con i suoi simili, con gli altri, con la natura e soprattutto con sé stesso. Allora, di quale stortura si starebbe parlando?
In foto Mauro Corona