Sta volgendo al termine in El Salvador il terzo mese di stato di emergenza, invocato dal presidente Nayib Bukele per porre fine all’incubo delle pandillas: gang criminali urbane, da anni principale fonte di insicurezza per lo stato centroamericano. Tramite una politica di incarcerazioni di massa Bukele si presenta come il salvatore della patria, mentre norme sempre più severe che limitano le libertà civili e di opinione vengono denunciate da media indipendenti e organizzazioni per i diritti umani.
di Giada Vair
Il fatto: la follia omicida e lo stato di emergenza
Il 27 marzo il Congresso di El Salvador ha accolto la richiesta del presidente Nayib Bukele e ha dichiarato lo stato di emergenza. La misura è stata adottata in risposta al drastico incremento della criminalità, con circa 87 persone uccise indiscriminatamente in soli tre giorni, in una follia omicida operata dalle gang urbane. Questo picco di violenza improvviso segna il giorno più sanguinoso nella storia del paese da quando è terminata la guerra civile 30 anni fa, cogliendo impreparati sia la popolazione sia gli esperti dal momento che, negli ultimi anni, il tasso di omicidi era drasticamente calato. Le indagini svolte dal giornale locale indipendente El Faro sembrano invece dimostrare che la riduzione della violenza negli anni passati non sia stata frutto di azioni più efficaci messe in atto dal governo per ridurre la criminalità, ma di un accordo segreto tra le pandillas e l’amministrazione di Bukele.
Già un’indagine del 2020 aveva tratto le stesse conclusioni, confermate nuovamente in sette audio che Carlos Martínez, giornalista investigativo di El Faro, ha ottenuto dal portavoce, Carlos Marroquín, della gang Mara Salvatrucha (MS-13) nelle negoziazioni con il governo, rivendicando gli omicidi di fine marzo e giustificandoli come una risposta alla rottura dell’accordo segreto siglato con il governo. Secondo la fonte nel 2019 Bukele ha chiesto alle gang di interrompere la pratica degli omicidi in cambio di un trattamento prioritario nelle carceri e della promessa di non far arrestare alcuni leader dell’organizzazione. In seguito però alla cattura all’inizio di marzo di alcuni membri della gang, la MS-13 aveva dato 72 ore di tempo al governo per rilasciare i detenuti. Il massacro compiutosi tra il 25 e il 27 di marzo sarebbe quindi stata la risposta per la mancata azione dell’amministrazione pubblica.
La reazione del governo questa volta non si è fatta attendere e uno stato di emergenza della durata di 30 giorni, prima di allora già prolungato per altri due turni, è stato subito messo in atto. Restrizioni alle libertà civili, limitazioni al diritto di assemblea e di movimento, controlli serrati nelle strade e soprattutto incarcerazioni di massa. Ad oggi sono oltre 34.000 i pandilleros arrestati. Si tratta soprattutto di giovani uomini tra i 15 e i 35 anni, appartenenti ai quartieri più poveri delle città, molti dei quali non sembrano in realtà avere alcuna connessione con le organizzazioni criminali o essere coinvolti nella serie di omicidi di fine marzo. Le associazioni a difesa dei diritti umani hanno da subito denunciato questa politica di detenzioni di massa, che non consente di accertare la colpevolezza dei reclusi e conduce soltanto a penitenziari sovraffollati, in cui i prigionieri sono costretti a vivere in condizioni inumane. Molti giovani sono stati portati via senza dare alcuna spiegazione riguardo al motivo del loro arresto o su dove sarebbero stati detenuti, e le loro famiglie non hanno più avuto loro notizie. Quando interrogati circa le ragioni delle incarcerazioni, gli ufficiali di polizia hanno risposto di “non sapere e di avere delle quote giornaliere di catture da rispettare”.
Maras e Pandillas: cosa sono e come si è cercato di fermarle
Le gang urbane sono dei gruppi profondamente identitari in cui si riuniscono i giovani generalmente tra i 12 e i 24 anni. Hanno delle caratteristiche distintive quali tatuaggi, graffiti, simboli e nomi ben definiti e si inseriscono nel mondo criminale in tutti i suoi spettri: dal microcrimine cittadino ad azioni violente quali estorsioni, omicidi, fino ad arrivare a collaborazioni con i narcotrafficanti. Maras e pandillas sono i termini con cui si fa riferimento alle gang criminali urbane che popolano i paesi del Centroamerica. Spesso usati in modo intercambiabile, i due termini fanno in realtà riferimento a due concetti diversi. Le pandillas sono un fenomeno presente nella regione da lungo tempo e riguardano gruppi maggiormente localizzati in uno stato/città, invece le maras sono gang di nuova formazione caratterizzate da una dimensione transnazionale che prevede lo sconfinamento in più stati e la creazione di reti tra le varie clikas locali.
El Salvador è la base di due maras molto influenti a livello regionale, la Mara Salvatrucha (MS-13) e il Barrio 18 (M-18). Queste gang sono sorte tra gli anni ’60 e ’80 a Los Angeles da gruppi di migranti centroamericani, e negli anni le loro attività si sono allargate all’intera regione. Hanno cominciato a crescere esponenzialmente in El Salvador soprattutto a partire dal 1996, quando il governo degli Stati Uniti ha emanato l’Illegal Immigrant Reform and Immigrant Responsibility Act. Questa misura, la quale prevede che gli immigrati di origine latina condannati per crimini di vario tipo vengano deportati dagli Stati Uniti ai loro paesi di origine, ha favorito il trasferimento del gangsterismo di tipo americano nel Centroamerica, dove la condizione di fragilità dello Stato ne ha facilitato la crescita. I deportati, infatti, appartenendo ad una generazione nata negli Stati Uniti che non ha mai avuto contatti con il paese di origine e spesso non ne parla neanche la lingua, hanno faticato ad inserirsi nella nuova società e hanno trovato la loro identità all’interno delle bande, che permettono loro di autodeterminarsi tramite l’appartenenza ad un gruppo. Nel 2012 la MS-13 contava circa 12.000 membri.
Di fronte alla crescita e sempre maggiore influenza delle gang, i paesi centroamericani hanno adottato politiche di repressione del crimine, denominate Mano Dura. Questo è l’approccio a cui si è ispirato Bukele, che prevedeva l’arresto massivo di giovani con tatuaggi o comportamenti giudicati sospetti, con l’accusa di appartenenza a una gang o di aver commesso crimini sotto di esse. Le misure si sono dimostrate a dir poco fallimentari e, addirittura, hanno fomentato la crescita delle bande. Le detenzioni di massa hanno infatti consentito a vari gruppi di entrare in contatto e di stringere legami più forti. Inoltre, la debolezza del sistema carcerario ha consentito molto spesso che i penitenziari cadessero sotto il controllo delle gang, che continuavano a gestire i loro traffici ed espandersi anche da dietro le sbarre.
Un passo avanti verso l’autoritarismo
Le associazioni locali e internazionali a difesa dei diritti umani temono che Nayib Bukele intenda approfittare della situazione di insicurezza per accentrare il potere nelle sue mani. Con l’esecutivo e il giudiziario già sotto il suo controllo e il Congresso a larga maggioranza a suo favore, la soppressione delle libertà civili e le recenti norme che limitano il diritto di opinione sono un ulteriore passo verso un regime sempre più autoritario. Ad aprile, infatti, è stata varata una riforma speciale del Codice penale, giustificata dalla situazione di emergenza, volta a punire con fino a 15 anni di carcere chiunque “diffonda informazioni sulle gang che possano generare il panico nella popolazione”. La norma è stata accusata di estrema vaghezza, col rischio di mettere in pericolo i giornalisti e limitare il diritto di informazione e opinione.
Eppure, secondo le statistiche della Gallup, almeno l’80% della popolazione è d’accordo con le misure intraprese nella guerra alle pandillas. L’alta percentuale dimostra quanto il fenomeno delle gang sia fonte di preoccupazione per i salvadoregni, disposti ad accettare limitazioni alle loro libertà e alla democrazia in cambio di maggiore sicurezza. Il problema è che, come in passato, difficilmente il nuovo approccio di Mano Dura sarà realmente efficace: un sistema penitenziario sovraccarico e disorganizzato e misure di repressione violenta di questo tipo possono portare a benefici sul breve periodo, ma è altamente improbabile che siano sostenibili e duraturi. Le esperienze passate del paese e di altri Stati della regione dimostrano che per debellare il fenomeno delle gang sono necessarie politiche di prevenzione e reinserimento sociale, che devono essere messe in atto con serietà e volute da entrambe le parti. Accordi segreti e Mano Dura sono indice di corruzione e assenza di stato di diritto, possono portare sollievo e assicurare il supporto della popolazione solamente finché restano in piedi, senza però essere in grado di risolvere il problema alla sua radice.
In foto: Prigione di Izalco (credit: Gobierno de El Salvador via AP)