L’instabilità generata da un attacco nemico (im)prevedibile non è solo politica o economica: è anche psicologica.
di Federica Tardolini
Masouma Tajik è una giovane studentessa di 23 anni ed il bene più prezioso che possiede ad oggi è la sua formazione: si è laureata in Data Science nella prestigiosa American University of Afghanistan ed il suo sogno sarebbe quello di specializzarsi ulteriormente in Europa, se solo non avesse dovuto fuggire da Kabul e da Kiev in soli sette mesi. Ma andiamo con calma.
La sua storia ha dell’incredibile. Masouma nasce a Teheran nel 1999, dove la sua famiglia, di etnia Hazara, cerca rifugio per sfuggire alle persecuzioni subite in Afghanistan, dopo il ritiro sovietico, da parte della popolazione talebana. A seguito degli attentati terroristici dell’11 settembre 2001, l’invasione statunitense dell’Afghanistan porta al rovesciamento del regime talebano e alla conquista della capitale. Inizia così il ventennio di state building economico, politico e sociale targato USA in Afghanistan, dove si tenta una democratizzazione interna tra alti e bassi, con l’instaurazione del governo di transizione di Hamid Karzai, rimasto in carica fino al 2014. Masouma ha due anni quando comincia l’invasione statunitense dell’Afghanistan e, una volta tornata a Kabul, cresce, si occupa della propria famiglia, va a scuola e poi si laurea, comincia a lavorare, ha un proprio gruppo di amici. Insomma, conduce la vita di una ragazza qualsiasi in un Paese che sta cercando di rimettere insieme i cocci di quella che vorrebbe essere una propria stabilità interna, affidandosi completamente alla “figura salvifica” statunitense.
È il 15 agosto 2021 quando i Talebani, sulla scia del frettoloso ritiro delle truppe USA dal Paese, giungono alle porte di Kabul e ritornano al potere in Afghanistan instaurando il secondo Emirato Islamico, al culmine di un’offensiva militare cominciata a partire dal mese di maggio. Masouma, così come centinaia di migliaia di afghani in quel momento, capisce che, per non perdere quanto ottenuto negli ultimi venti anni di vita, ha bisogno di scappare. Prende i suoi documenti, il suo computer e, approfittando dell’aiuto offertole dal suo datore di lavoro, arriva all’aeroporto di Kabul. Riesce a partire solamente sei giorni dopo, il 21 agosto, assieme ad un centinaio di altre persone tra giornalisti, attivisti, donne e bambini disperati, su un volo di evacuazione della Ukrainian Air Force diretto verso Kiev.
Per Masouma, si ricomincia da zero: una nuova città della quale si conosce poco o niente, una nuova lingua da imparare a leggere, scrivere e parlare. Per fortuna, l’uomo è un animale sociale e la 23enne, con il suo visto umanitario, si ambienta subito a Kiev, piano piano conosce nuove persone, trova un nuovo lavoro come data analyst che le permette di pagare l’affitto di un intero appartamento e di aiutare la propria famiglia rimasta a Kabul. Comincia a capire come funziona la vita in un Paese come l’Ucraina, che sente sempre di più il fiato russo sul proprio collo. Poco dopo aver inoltrato domande di ammissione ai corsi di specializzazione in Computer Science in vari atenei statunitensi, inglesi e tedeschi, a febbraio cominciano ad acuirsi le tensioni decennali tra Russia ed Ucraina. Il conflitto nel Donbass che dura dal 2014, le truppe russe mobilitate ai propri confini orientali, i dialoghi diplomatici (infruttuosi) tra Russia, Stati Uniti ed Unione Europea e la proclamazione dell’indipendenza delle Repubbliche di Donetsk e Luhansk scatenano nella mente di Masouma terribili déja-vu: avere la sensazione che tutto quello che si è costruito ed ottenuto nella propria vita stia lì lì per crollare. Una sensazione che diventa realtà dal 24 febbraio, giorno dell’invasione russa dell’Ucraina e che spinge Masouma inizialmente a spostarsi da Kiev verso la città di Lviv e poi ad intraprendere un viaggio verso Varsavia, ricongiungendosi con amici afghani che vi hanno trovato rifugio dopo l’arrivo dei Talebani a Kabul.
Vivere costantemente con la sensazione, quasi certezza, che prima o poi qualcosa potrebbe turbare la serenità e spensieratezza dei propri 23 anni e costringere alla fuga è agghiacciante. In un’intervista al Guardian dell’8 marzo, le parole di Masouma sono cariche di fragilità e, soprattutto, rassegnazione: “Mi chiedo se esiste veramente un Paese che non sia in guerra, di maniera tale da fuggirvi. Perché proprio io? Perché non posso vivere una vita normale, come ogni ragazza di 23 anni in Europa?”.
In foto: Masouma Tajik (credit: Diana Markosian)