Nati diseguali: Gaza, la prigione a cielo aperto

La “Barriera”. A giudicare dal nome sembrerebbe di trovarsi in Game of Thrones, ma il muro sotterraneo dotato di sensori di movimento, barriere sottomarine e sistemi di armi controllate a distanza non è altro che “la linea di frontiera” che circonda l’intero territorio della striscia di Gaza.

di Meryem Derraa e Crystal Lucianini Barbati

Dove, come e perché

Devastata dalla guerra e colpita dalla povertà, la striscia di Gaza è un’area di 365 chilometri quadrati che ospita due milioni di palestinesi e che vive da 14 anni sotto uno stretto blocco illegale su terra, aria e mare. Prima di essere occupata da Israele, Gaza era sotto il controllo dell’Egitto, paese con cui confina a ovest. Nel 1967 venne poi conquistata da Israele, durante la guerra con l’Egitto, ed occupata per quasi 40 anni fino al 2005, anno in cui il primo ministro israeliano Ariel Sharon decise unilateralmente di smobilitare colonie e insediamenti israeliani e di ritirare i militari.

Tuttavia, ancora oggi Israele mantiene un “controllo effettivo” sia su Gaza che su Cisgiordania e Gerusalemme Est e per questo motivo tali aree vivono di fatto sotto l’occupazione militare israeliana. Il perdurare dello status di Israele come potenza occupante a Gaza è stato confermato dalle Nazioni Unite e dalle organizzazioni internazionali umanitarie e per i diritti umani come il Comitato Internazionale della Croce Rossa, Amnesty International e Human Rights Watch, nonché dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti.

Il blocco di Gaza

Già all’inizio degli anni ’90, Israele aveva iniziato a imporre restrizioni al movimento dei palestinesi a Gaza, costruendo una barriera che circonda il territorio su due dei suoi tre lati non costieri. Tuttavia è solo in risposta alla vittoria di Hamas alle elezioni per il parlamento dell’Autorità Palestinese nel 2006 che Israele ha imposto sull’area un assedio draconiano e un blocco navale.

Nel 2006, infatti, dopo aver indebolito il governo di unità Fatah-Hamas dell’AP, gli Stati Uniti e Israele incoraggiarono Fatah a lanciare quello che equivaleva a un tentativo di colpo di stato contro l’Autorità Palestinese a Gaza, dominata da Hamas. La rivolto sfociò in una breve ma sanguinosa lotta in cui quest’ultimo sconfisse le forze armate di Fatah e prese il completo controllo all’interno di Gaza.

Le restrizioni istituite da Israele dopo l’acquisizione di Gaza da parte di Hamas, rappresentano i pilastri centrali di una politica di guerra economica volta a punire l’intera popolazione dell’area, colpevole di aver scelto Hamas come proprio rappresentante. Esse inoltre hanno lo scopo di spingere la popolazione di Gaza ad attribuire unicamente al loro leader la responsabilità della situazione nella quale si trova e a negargli l’organizzazione e qualsiasi resistenza al continuo controllo israeliano sul territorio.

Le Nazioni Unite e le organizzazioni per i diritti umani hanno definito queste misure come una “punizione collettiva” e, come tali, corrispondenti ad una violazione del diritto internazionale. In particolare, la punizione collettiva contravviene alle Convenzioni dell’Aia sul diritto di guerra, nonché all’art. 33 della Quarta Convenzione di Ginevra, che recita: “Nessuna persona protetta può essere punita per un reato che non ha commesso personalmente”.

Tuttavia, Israele usa regolarmente punizioni collettive anche contro i palestinesi nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme Est, sotto forma di demolizioni di case, arresti arbitrari, restrizioni alla circolazione e altre misure. Nel 2006, un consigliere anziano dell’allora primo ministro israeliano Ehud Olmert, Dov Weisglass, ha spiegato che l’obiettivo dell’assedio di Gaza era quello di mettere la popolazione di Gaza “a dieta, ma non di farla morire di fame”.

A dare adito a questa affermazione è stata, nel 2012, la rivelazione secondo cui all’inizio del 2008 le autorità israeliane hanno redatto un documento che calcolava il consumo calorico minimo necessario ai palestinesi per evitare la malnutrizione. In tal modo Israele avrebbe potuto limitare la quantità di alimenti consentiti a Gaza, senza causare però la fame.

Il ruolo dell’Egitto e le violazioni israeliane del diritto internazionale

Ad essere responsabile del deterioramento della situazione economica ed umanitaria a Gaza, però, non è solo Israele, ma anche l’Egitto, che collabora nella chiusura dei confini con la striscia di Gaza. Infatti, nel 2007 dopo che Hamas ha trionfato su Fatah e sono iniziati i combattimenti tra le due fazioni, temendo il passaggio dei militanti di Hamas sul suo territorio, l’Egitto ha chiuso il suo confine con Gaza. Da allora, il valico di Rafah tra Gaza e l’Egitto apre solo qualche giorno all’anno e consente il movimento solo a un numero limitato di viaggiatori autorizzati, casi sanitari ed umanitari.

Secondo i regolamenti della Convenzione dell’Aia del 1907 e la Quarta Convenzione di Ginevra (GCIV) del 1949, Israele, come potenza occupante, è responsabile della sicurezza e del benessere della popolazione civile nei territori sotto il suo controllo, compresi gli 1,8 milioni di abitanti di Gaza. Infatti, come sancito negli articoli 55 e 56 della GCIV, “la Potenza occupante ha il dovere di assicurare l’approvvigionamento alimentare e medico della popolazione” e “ha il dovere di assicurare e mantenere le strutture e i servizi medici e ospedalieri, la sanità pubblica e l’igiene nel territorio occupato”.

Nella realtà dei fatti, però, Israele ha violato e continua ancora oggi a violare deliberatamente queste norme del diritto internazionale, ignorando i doveri di potenza occupante, ma godendo di tutti i suoi oneri. Tra questi ci sono il controllo dello spazio aereo e delle acque territoriali di Gaza, nonché di due dei suoi tre valichi di frontiera; l’autorizzazione all’ingresso nell’area di beni in quantità arbitrariamente stabilite e la forte limitazione degli spostamenti delle persone.

La Barriera

Costruita sotto la guida del primo ministro israeliano Yitzhak Rabin tra la striscia di Gaza, Egitto e Israele, la “Barriera” altro non è che la frontiera tra i tre territori. L’inizio della sua costruzione risale al 1994, quando, dopo la firma degli accordi di Oslo, ne vennero completati i primi 60 chilometri. Dopo essere stato parzialmente distrutto dai palestinesi all’inizio della seconda Intifada nel 2000, il segmento al confine con Israele venne ricostruito tra il 2000 e il 2001, con l’aggiunta di una zona-cuscinetto nota come “Philadelphi Route” – la cui costruzione ha richiesto la demolizione di numerose case.

Al confine con l’Egitto il muro è costituito da muri di acciaio e calcestruzzo, mentre lungo il confine con Israele si trovano un muro sotterraneo dotato di sensori di movimento, una recinzione alta sei metri e una barriera in mare con attrezzature di monitoraggio per rilevare le incursioni dall’acqua. La barriera include poi sistemi di armi controllate a distanza e una serie di sistemi radar con telecamere che coprono l’intero territorio della striscia di Gaza. Inoltre, secondo il quotidiano Ha’aretz, ai soldati è stato dato ordine di aprire il fuoco contro chiunque si aggiri nei pressi del muro di notte.

Mentre il governo israeliano sostiene che questo prodotto della tecnologia moderna abbia il fine di prevenire attacchi terroristici e l’ingresso di kamikaze palestinesi in territorio israeliano, non sono in pochi a credere che Gaza non sia altro che il terreno di prova per le avanzate tecnologie di guerra di cui Israele è il principale sviluppatore al mondo. Stando a queste descrizioni, Gaza non sarebbe altro che una prigione di massima sicurezza a cielo aperto.

Apartheid scolastica

Dal 2000, Israele ha impedito agli studenti di Gaza di viaggiare per studiare nelle università della West Bank, alcune delle quali offrono campi di studio e titoli di studio non disponibili a Gaza. Secondo un rapporto del quotidiano Haaretz, tra il 2000 e il 2012 il governo israeliano ha permesso a soli tre abitanti di Gaza di spostarsi per studiare nelle università della Cisgiordania, i quali però avevano ricevuto borse di studio dal governo degli Stati Uniti.

Essendo impedito ogni accesso da e per la Striscia di Gaza, via mare e via aria, tre sono i valichi attraverso cui è previsto lo spostamento di persone e merci dentro e fuori Gaza: valico di Rafah, quello di Kerem Shalom e quello di Erez; in quest’ultimo valico Israele consente il passaggio solo in “casi umanitari eccezionali, con enfasi sui casi medici urgenti”.

Secondo le Nazioni Unite, il numero di palestinesi in uscita da questo valico durante il decennio 2010-2019 è stato di 287 persone in media al giorno. Da maggio 2018, invece, il valico di Rafah, controllato dall’Egitto, è stato aperto in modo irregolare, registrando una media giornaliera di 213 uscite nel 2019. Infine, il numero medio di uscite attraverso il valico di Erez durante il decennio 2010-2019 è stato di 287 persone al giorno, rispetto alle oltre 20.000 uscite giornaliere del 2000, prima della seconda Intifada.

Controllo

Le limitazioni ai movimenti non sono iniziate con l’assedio, già a partire dalla fine degli anni ’80 con lo scoppio della prima rivolta palestinese, o Intifada, l’occupazione israeliana ha iniziato a imporre restrizioni introducendo un sistema di permessi che imponeva ai palestinesi di Gaza di richiedere permessi difficili da ottenere per lavorare o viaggiare attraverso Israele o accedere ai territori occupati, Cisgiordania e Gerusalemme.

Dal 1993, in particolare, Israele ha usato regolarmente la tattica della “chiusura” nei territori palestinesi, impedendo a volte a tutti i palestinesi in certe zone di uscire, anche per mesi. Nel 1995, l’occupazione ha costruito una recinzione elettronica e un muro di cemento attorno alla striscia di Gaza, facilitando il crollo delle interazioni tra i territori palestinesi divisi. E quando nel 2000 scoppiò la Seconda Intifada, cancellò molti dei permessi di viaggio e di lavoro esistenti a Gaza e ridusse significativamente il numero di nuovi permessi rilasciati. Nel 2001 invece, è stato bombardato e demolito da parte di Israele l’unico aeroporto di Gaza, solo tre anni dopo la sua apertura, bloccando così ancora di più i palestinesi e costringendoli a muoversi solo attraverso le frontiere terrestri.

Il blocco israeliano ha tagliato fuori i palestinesi dal loro principale centro urbano, Gerusalemme, che ospita ospedali specializzati, consolati stranieri, banche e altri servizi vitali, nonostante l’accordo di Oslo del 1993 stabilisca che Israele deve trattare i territori palestinesi come un’unica entità politica, da non dividere. Bloccando i viaggi a Gerusalemme Est, Israele impedisce ai palestinesi cristiani e musulmani di Gaza di accedere ai loro centri di vita religiosa; divide famiglie e nega a molti giovani l’opportunità di studiare e lavorare al di fuori di Gaza e addirittura il diritto di ottenere l’assistenza sanitaria necessaria.

La crisi energetica

Nel 2006 il conflitto israelo-palestinese si è inasprito e, durante delle operazioni militari israeliane, è stata colpita l’unica centrale elettrica della striscia di Gaza. La distruzione dei suoi trasformatori ha portato ad una crisi energetica che nel corso di questi anni è drammaticamente peggiorata. Negli anni immediatamente successivi al 2006, infatti, l’elettricità è stata tagliata anche per 20 ore al giorno e solo nel 2009 la centrale è tornata in funzione, anche se solo parzialmente.

I fondi per sostenere i costi del combustibile necessario al funzionamento dell’impianto sono arrivati inizialmente dall’Unione europea e in seguito dall’Egitto. Tuttavia, quando agli inizi del 2012 è scoppiata la crisi egiziana del carburante, le quantità fornite fino a quel momento a Gaza – utili ad alimentare solo 3 dei 6 generatori – vennero ulteriormente ridotte. Avendo dato fondo a tutte le sue riserve, la centrale ha smesso di funzionare del tutto nel febbraio 2012. I successivi attacchi israeliani sulla striscia hanno ulteriormente danneggiato le strutture, compromettendo in maniera grave il processo di generazione e distribuzione dell’elettricità.

Il culmine di questa crisi è stato raggiunto nel 2017, quando l’Autorità Palestinese ha deciso di smettere di pagare l’elettricità che Israele forniva a Gaza. Gli abitanti della striscia hanno così potuto usufruire dell’elettricità per sole 6 ore al giorno. La situazione sembrò migliorare nel 2018, grazie alle donazioni e ai fondi forniti dal governo del Qatar. Tuttavia, quando nel 2019 le autorità israeliane hanno impedito l’ingresso di carburante a Gaza e le linee egiziane sono state sospese, la situazione è peggiorata nuovamente. Attualmente, la popolazione dispone di elettricità solo per 4 o 6 ore al giorno.

L’insufficienza dell’energia elettrica disponibile e l’instabilità della situazione si sono ripercosse su diversi settori fondamentali per la sopravvivenza della popolazione. In primis vi è quello sanitario, dove centinaia sono i pazienti la cui vita è minacciata dalle ripetute interruzioni di corrente: le sale operatorie si sono rivelate spesso inutilizzabili e ci sono state gravi complicazioni per i bambini nelle nursery, per i pazienti dei reparti di terapia intensiva e per tutti quelli le cui patologie necessitano di elettricità costante.

Il collasso del sistema sanitario

Il blocco di Gaza ha causato carenze permanenti in termini di assistenza sanitaria, medicinali e forniture (per la riparazione di strumenti tecnici) e la situazione si è aggravata notevolmente con l’emergere della crisi da Covid19, che ha quasi portato il settore al collasso. Dopo anni di embargo, i servizi di assistenza sanitaria nella striscia di Gaza sono diminuiti del 66%, mentre i servizi di emergenza e le operazioni sono diminuiti del 21%. Oltre alle sfide legate alla pandemia e alla mancanza di elettricità, la sanità ha dovuto affrontare i colpi inferti dagli attacchi militari israeliani, che spesso – volontariamente e non – hanno preso di mira proprio personale medico, ospedali e altri centri di cura.

Fino ad ora si è tentato in diversi modi di affrontare la decennale crisi sanitaria. La prima soluzione è quella di trasferire i pazienti in centri esterni all’area, come quelli in Cisgiordania o Israele stesso. Tuttavia, il trasferimento all’estero per motivi di salute può avvenire solo previa autorizzazione delle autorità israeliane, che spesso praticano misure discriminatorie contro gli abitanti di Gaza. Infatti, il tasso di pazienti ospedalizzati all’estero è andato progressivamente calando negli anni, raggiungendo la percentuale più bassa – il 28,1% dei richiedenti – nel 2020, dopo che l’Autorità palestinese ha annunciato la sospensione degli accordi di Oslo con Israele.

Dunque, laddove questa opzione non risulta possibile, si fa affidamento sull’aiuto di équipe mediche straniere, che offrono il loro sapere specializzato in campi medici ancora non ben sviluppati a Gaza. L’ultima soluzione è legata all’aiuto medico fornito da organizzazioni internazionali come l’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’UNRWA e dall’Autorità Palestinese.

Tuttavia, i blocchi causati dal Covid e quelli legati alle politiche israeliane, hanno portato a gravi deficit per i servizi sanitari di base come l’assistenza infantile e materna e per quelli più specializzati come quelli forniti ai malati di cancro. Il tasso di sopravvivenza di questi pazienti è notevolmente diminuito, scendendo al 42% nel caso di pazienti affetti da cancro al seno. Inoltre, anche laddove le strutture e le forniture tecniche non mancano, è poco e generalmente non sufficiente il personale medico necessario.

Secondo i dati del Ministero della Salute di Gaza, nell’area ci sono solo 13 ospedali governativi, le cui camere operatorie vengono utilizzate solo in casi di estrema urgenza, proprio a causa di mancanza di personale. Per questo motivo, chi ha necessità di sottoporsi ad un’operazione sarà costretto a rivolgersi a strutture private, pena dover rimanere in lista d’attesa fino a più di un anno.

Emergenza Covid-19

Lo Stato israeliano è considerato nel diritto internazionale uno Stato occupante, in virtù di questa sua posizione, dovrebbero trovare applicazione delle norme del diritto umanitario che disciplinano i doveri degli occupanti verso i civili nei territori occupati. Tuttavia, come abbiamo visto, anche in situazioni di normalità il controllo israeliano sulla popolazione palestinese si attua violando intenzionalmente i diritti di questi ultimi, incluso quello alla salute. In una situazione emergenziale come quella dettata dalla pandemia da Coronavirus questa tendenza non poteva far altro che peggiorare.

Come denunciato da un gruppo di 165 ONG palestinesi, “le autorità israeliane hanno portato avanti la campagna vaccinale in maniera discriminatoria, illecita e razzista”. Infatti, mentre sui giornali internazionali Israele spiccava per aver raggiunto in breve tempo la più ampia copertura vaccinale, pochi hanno fatto caso al fatto che i vaccinati fossero quasi esclusivamente cittadini israeliani. Il vaccino è stato distribuito in maniera discriminatoria, seguendo criteri di applicazione del tutto arbitrari. Inoltre, il blocco israeliano all’ingresso di molti beni si è applicato non solo a cibo e forniture mediche, come di consueto, ma anche ai vaccini Covid19.

Secondo quanto riportato da B’Tselem, il Centro Informativo israeliano per i diritti umani nei Territori Occupati, il governo israeliano ha anche più volte ostacolato la costruzione di cliniche da campo, sequestrando il materiale necessario ai lavori: tendoni, generatori di corrente, cemento e tutto il materiale necessario a rendere funzionanti le cliniche.

Michael Lynk, relatore speciale delle Nazioni Unite per la situazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati, ha poi evidenziato come le prime comunicazioni ufficiali sul Covid19, rilasciate dal ministero della Sanità israeliano, siano state pubblicate in un primo momento solo in lingua ebraica, escludendo quindi dall’informazione la popolazione arabo-parlante.

Dunque, mentre il numero di cittadini israeliani (e arabi-israeliani) vaccinati cresceva, più di 4,5 milioni di palestinesi che vivevano sotto il controllo militare diretto o indiretto di Israele in Cisgiordania e Gaza sono stati esclusi dalla campagna vaccinale, in aperta violazione delle norme internazionali. Poiché però le autorità palestinesi in Cisgiordania e l’amministrazione de facto di Hamas nella striscia di Gaza non potevano finanziare autonomamente i vaccini e la loro distribuzione tra la popolazione palestinese, la sorte degli occupati è dipesa da meccanismi di cooperazione globale come il programma COVAX guidato dall’OMS.

In risposta alle accuse che gli sono state mosse a livello internazionale per la gestione della pandemia nei TPO, i funzionari israeliani hanno più volte ribadito che i responsabili per la gestione dell’emergenza e della vaccinazione in questi territori sono le Autorità Palestinesi, così come stabilito negli accordi di pace di Oslo. Gli stessi accordi che dal 1993 il governo israeliano si impegna a violare, quotidianamente.

In foto: La ‘barriera di Gaza’ (credit_Ansa.it)