Nati diseguali: le relazioni tra ebrei e palestinesi e le politiche discriminatorie israeliane

Il 29 novembre di ogni anno si celebra in tutto il mondo la Giornata delle Nazioni Unite in solidarietà del popolo palestinese, istituita per ricordare la risoluzione 181/47 che sancì la spartizione della Palestina storica, e la creazione di uno Stato ebraico e di uno arabo. Dopo lunghi negoziati preliminari, il piano fu accettato dallo Yishuv (la comunità ebraica) ma respinto dalla comunità araba e dunque non fu mai attuato.
Cenni storici

La creazione di uno Stato israeliano sul territorio palestinese ha avuto inizio nel 1917 con la firma della Dichiarazione di Balfour, con cui la Gran Bretagna si dichiarò favorevole alla creazione di un insediamento ebraico in Palestina. Con la dissoluzione dell’Impero ottomano, nel 1920 la Gran Bretagna ottenne il mandato sulla Palestina e sulla Transgiordania (l’attuale Giordania e parte della Cisgiordania – West Bank). In questo periodo le ondate di migrazione ebraica aumentarono in maniera esponenziale tanto che, se nel 1922 in Palestina risiedevano 590.000 arabi, 71.000 cristiani e 84.000 ebrei, dieci anni dopo gli ebrei erano diventati 175.138 e 360.000 alla fine degli anni trenta.

La massiccia migrazione di coloni e lo squilibrio economico tra arabi ed ebrei (in gran parte borghesi europei), fu favorito dall’assegnazione di terre più fertili ai coloni. Questo causò un crescente malcontento tra le popolazioni arabe, portando allo scoppio di una grande rivolta tra il 1936 e 1939. I britannici la repressero e cercarono di limitare l’emigrazione ebraica ma, in seguito alla Seconda guerra mondiale e all’Olocausto, la situazione divenne incontrollabile, tanto che la Gran Bretagna decise di ritirarsi dalla Palestina e delegare la questione all’Onu.

Nel 1947 l’Assemblea generale dell’Onu approvò la risoluzione 181 e indicò la strada da percorrere: due Stati sulla stessa terra, l’uno ebraico, che avrebbe coperto il 55% della zona e ospitato anche 400 mila palestinesi, e l’altro interamente arabo. Gerusalemme, invece, sarebbe passata sotto il controllo internazionale. I leader ebrei accettarono, quelli palestinesi no. Così, quando il 14 maggio del 1948, prima del ritiro britannico, l’Yishuv dichiarò l’indipendenza dello Stato di Israele con l’assenso di molti Paesi – tra cui Usa e Urss -, scoppiò la guerra. Gli Stati conf0.inanti della Lega Araba, che consideravano il sionismo un’ingerenza straniera, attaccarono Israele, che a sua volta contrattaccò.

Gli arabi persero e nel 1949 furono firmati diversi armistizi, in seguito ai quali Israele ottenne ancora più territori di quelli previsti con gli accordi Onu, inclusa la parte ovest di Gerusalemme. Il popolo palestinese, uscito impreparato dal mandato britannico, non ha mai avuto un suo Stato, anzi: da allora i palestinesi hanno continuato a perdere sempre più territori, occupati illegalmente dallo Stato di Israele. Attualmente, il negoziato di pace con Israele è fermo, l’obiettivo di due Stati pare ormai irraggiungibile e i diritti dei palestinesi sono costantemente calpestati.

Crimini contro l’umanità e Apartheid

L’impedimento principale al raggiungimento della pace è costituito dall’intenzione del governo israeliano di mantenere il dominio degli ebrei israeliani sui palestinesi, sia in Israele che nei Territori Palestinesi Occupati (TPO). Secondo Human Rights Watch, nei TPO, compresa Gerusalemme Est, questo intento è stato associato all’oppressione sistematica dei palestinesi e agli atti disumani commessi contro di loro. Quando questi tre elementi si verificano insieme, costituiscono il crimine dell’Apartheid. Anche il Centro di Informazione israeliano per i Diritti Umani nei Territori Occupati, B’tselem, ha di recente pubblicato uno studio intitolato “This is Apartheid”, che giunge alle stesse conclusioni di HRW: tra il Mediterraneo e il fiume Giordano esiste un unico regime di supremazia ebraica.

Per arrivare a tale conclusione, le organizzazioni per i diritti umani hanno confrontato le politiche e le pratiche israeliane adottate nei confronti di quasi sette milioni di palestinesi nei territori occupati e all’interno di Israele,0 con le politiche riguardanti all’incirca lo stesso numero di ebrei israeliani che vivono nelle stesse aree. I due Rapporti valutano specifici atti e politiche delle autorità israeliane in particolari aree, il cui scopo è garantire il dominio degli ebrei israeliani e li valuta rispetto alle definizioni dei crimini contro l’umanità, dell’Apartheid e della persecuzione.

L’Apartheid è un termine che viene spesso associato al Sud Africa ma in realtà è utilizzato per descrivere gravi violazioni dei diritti umani. Inoltre, è considerato un crimine contro l’umanità, nella Convenzione internazionale del 1973 sulla repressione e la punizione dei Crimine di Apartheid (“Convenzione dell’Apartheid”) e nello Statuto di Roma del 1998 della Corte Penale Internazionale (ICC).

Il crimine di Apartheid, ai sensi della Convenzione dell’Apartheid e dello Statuto di Roma, è costituito da tre elementi principali: l’intento di mantenere un sistema di dominio di un gruppo razziale su un altro; l’oppressione sistematica di un gruppo razziale su un altro; uno o più atti disumani compiuti su base diffusa o sistematica ai sensi di tali politiche.

Dominio di un gruppo razziale su un altro: oppressione sistematica

Un obiettivo dichiarato del governo israeliano è garantire che gli ebrei israeliani mantengano il dominio su Israele e nei territori occupati. Infatti, la Knesset nel 2018 ha approvato una legge con status costituzionale che dichiara Israele come “stato-nazione del popolo ebraico”. Secondo questa disposizione, all’interno di tale territorio il diritto all’autodeterminazione “è esclusivo del popolo ebraico” e “l’insediamento ebraico” costituisce un valore nazionale.

A tale fine, le autorità israeliane hanno adottato politiche volte a mitigare quella che hanno apertamente descritto come una “minaccia” demografica, rappresentata dai palestinesi. Queste politiche includono la limitazione della popolazione e del potere politico del popolo palestinese: il diritto di voto, ad esempio, è concesso solo a coloro che vivono entro i confini di Israele, così come erano dal 1948 al 1967. Inoltre, è fortemente limitata la possibilità ai palestinesi di trasferirsi in Israele, provenendo dai territori occupati, da Gaza o da qualsiasi altro luogo.

Tra i tanti abusi che le autorità israeliane commettono contro i palestinesi vi sono la confisca di massa delle terre, la negazione dei diritti di residenza e la sospensione dei diritti civili. Tali pratiche sono costantemente giustificate dal governo israeliano come necessarie per la sicurezza dello Stato ma nella realtà dei fatti non trovano giustificazioni legittime in materia di sicurezza. D’altronde, se così fosse, legittime preoccupazioni per la sicurezza potrebbero giustificare oltre che l’Apartheid anche una politica che sancisce l’uso eccessivo della forza o della tortura.

Espropriazioni delle proprietà fondiarie

Rientrano nelle logiche della segregazione razziale tutte quelle politiche finalizzate all’occupazione del maggior numero di terre possibili e che garantiscono la drastica riduzione della presenza palestinese in esse. A tal fine, il governo israeliano ha usato, nel tempo, tattiche sempre più subdole che gli hanno consentito di legittimare la confisca delle terre appartenenti ai palestinesi.

Nel 1967, ad esempio, si fece ricorso alla cosiddetta “Legge sulla Proprietà degli Assenti”, emanata nel 1950. Questa consentiva di trasferire all’amministrazione civile le terre e i possedimenti dei palestinesi che non erano presenti nelle loro case al censimento del 1967 (ndr. in fuga dopo la guerra dei Sei giorni, al-Naksa). Furono circa 750.000 i rifugiati palestinesi che videro le loro terre confiscate e a cui fu negato il diritto di rientro. Chi tentò comunque di ritornare trovò la morte lungo le linee dell’armistizio del 1949 per mano delle truppe israeliane.

Inoltre, furono numerosi i palestinesi che, pur essendo stati censiti, vennero dichiarati “assenti presenti” e subirono la confisca delle proprietà. Le terre così statalizzate vennero poi sfruttate per costruire comunità ebraiche. Secondo quanto emerso dall’analisi di un rapporto commissionato dal governo israeliano nel 2003, queste espropriazioni sono state “chiaramente ed esplicitamente indirizzate agli interessi della maggioranza ebraica” ed il 93% delle terre in Israele che costituiscono “terre statali” sono state rese tali proprio per servire l’obiettivo della colonizzazione ebraica.

Il processo di espropriazione dei terreni e delle proprietà avviene sia all’interno dei confini di Israele sia nei TPO. Secondo il gruppo israeliano Peace Now, ad esempio, circa 1,4 milioni di dunams di terra (l’equivalente di circa un quarto della Cisgiordania) è detenuto da Israele come “terra statale”. Una parte è stata assegnata a terzi e si stima che la quasi totalità di questa (più del 99%) è stata assegnata proprio a civili israeliani.

Sfratti, demolizioni e permessi di costruzione

Alla beffa delle espropriazioni della terra si aggiungono anche le migliaia di ordini di sfratto che vengono emessi dal governo israeliano ai danni di palestinesi che si sono “illegittimamente impossessati” di terre statali. Non solo, in tutti i territori controllati dallo Stato israeliano è molto comune la pratica di demolizione delle case di proprietà palestinese.

Teoricamente, il diritto internazionale umanitario proibisce ad una potenza occupante di distruggere le proprietà sul territorio in suo controllo, a condizione che ciò non sia “assolutamente necessario” per “operazioni militari”, e vieta tutti gli atti che possano costituire una punizione collettiva. Nella realtà dei fatti, però, migliaia di proprietà palestinesi sono state rase al suolo, non solo in virtù del loro riconoscimento come “terre statali”, ma anche per punire, singolarmente e collettivamente, i palestinesi (e le loro famiglie) accusati di aver minato la sicurezza degli israeliani.

Infatti, secondo B’Tselem, solo in Cisgiordania nel periodo 2009-2020 le autorità israeliane avrebbero demolito più di 2300 case, lasciando sfollate oltre 9000 persone, a cui non è stata offerta alcuna compensazione o opzione di reinsediamento. Non solo, le spese della demolizione sono completamente a carico dei proprietari. Qualora ciò non fosse economicamente sostenibile, questi sono costretti a demolire le loro case con le proprie mani.

Rimanendo sempre nella sfera della proprietà terriera e delle demolizioni, un’altra pratica che si è consolidata nel tempo è quella di rifiutare categoricamente qualsiasi permesso di costruzione, per edifici privati, ma anche pubblici come scuole e cliniche, richiesto da palestinesi. L’indiscriminata espropriazione dei terreni e la demolizione delle proprietà, unite alla negazione dei permessi di costruzione, di fatto permettono al governo israeliano di mantenere la popolazione palestinese sotto il suo stretto controllo, rendendone praticamente impossibile il suo sviluppo. Purtroppo, per porre fine alla sofferenza del popolo palestinese, alle violazioni di diritti umani e ai crimini di Apartheid commessi nei nei loro confronti, una giornata di solidarietà non è sufficiente. Il popolo palestinese ogni giorno, da decenni, vede calpestati i propri diritti.

Per far sì che qualcosa cambi in positivo, è necessario che i singoli Stati e la Comunità Internazionale riconoscano la realtà sul campo per quello che è e sollecitino le autorità israeliane a rispettare i diritti umani dei palestinesi, a porre fine all’Apartheid e alla persecuzione. L’insieme di tutte queste pratiche è volto esclusivamente a limitare il potere politico e i diritti civili dei palestinesi e viene giustificato dal governo israeliano come una risposta alla violenza anti-israeliana dei palestinesi.

Tuttavia, i crimini contro l’umanità, le persecuzioni e gli abusi compiuti dal governo israeliano ai danni del popolo palestinese non si riducono a quelli trattati in questo articolo e limitano ogni attività della vita quotidiana dei palestinesi. Per questi motivi, abbiamo deciso di dedicare a questo tema una rubrica, in cui approfondiremo di volta in volta argomenti come la legge sulla cittadinanza e l’ingresso in Israele, la legge del ritorno, la negazione degli spostamenti, la creazione di ghetti ed altre violazioni.

di Meryem Derraa e Crystal Lucianini Barbati

In foto: Da Shuhada Street, nota “Via dell’Apartheid”, è diventata un simbolo dell’occupazione israeliana.