La “questione catalana”: un bandolo della matassa difficile da sciogliere

Una questione che attanaglia molto la Spagna è, senza dubbio, la “Questione Catalana”: un argomento multidisciplinare perché tocca vari punti di vista e vari campi scientifici, tra i principali quello economico, storico, giuridico e politico.

di Giuseppe Ventesimo

La Catalogna è una delle 17 “Comunità Autonome” (le nostre Regioni) della Spagna, la sua principale città di riferimento è Barcellona, con una popolazione di 7,5 milioni di abitanti, ha una sua lingua, il catalano, e gode di ampia autonomia amministrativa e politica dal 1978, anno della promulgazione della nuova Costituzione, ancora vigente, scritta dopo la fine della dittatura di Franco, terminata nel 1975, che invece aveva accentrato tutti i poteri. Infatti, la Costituzione ha dato ampio potere alle Comunità in molti settori (scuola, sanità), e c’è stato un ampio dibattito, ancora in corso, sul risultato di questo decentramento, che a detta di alcuni, come il filosofo Fernando Savater è negativo e mal gestito. Per capire bene la questione catalana, bisogna avere una visione di ampio raggio e capire il contesto. Ha profonde radici storiche, ma l’apice della questione si raggiunge dopo la crisi economica e finanziaria del 2008 e la crisi dell’euro e del debito sovrano del 2011 in Europa.

Entrambe le crisi colpiscono in maniera maggiore, configurandosi come uno shock asimmetrico, i paesi dell’area mediterranea, specialmente i paesi denominati dalla stampa in maniera dispregiativa come PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna), in quanto paesi “cicala”, segnati da un alto deficit pubblico e un alto debito pubblico in rapporto al PIL. Per far stabilizzare le finanze pubbliche di questi Paesi per rientrare dal debito (così non sarà), vengono indette misure draconiane, fatte da politiche di austerity (politiche fiscali restrittive), con consistenti e corposi tagli alla spesa pubblica e ai sussidi, specialmente in sanità, istruzione, pensioni, assistenza sociale con molta flessibilità sul mercato del lavoro, privatizzazione e decentralizzazione dei servizi pubblici, diminuzione degli investimenti pubblici e privati. La Spagna, paese duramente colpito da queste misure, ha sperimentato una grave e profonda crisi e recessione economica, ne ha risentito nella sua stabilità interna. Tra i turbamenti della sua stabilità rientra la questione della Catalogna, dove si sono intensificati ancora di più gli aneliti indipendentistici con cortei e manifestazioni (marcia nel giorno di festa della Diada), di cui alcune sfociate addirittura nella violenza.

La Catalogna è una delle Comunità più prospere dal punto di vista economico, infatti il suo PIL vale il 20% di quello spagnolo, in termini di esportazioni raggiunge il 25,5 % del totale spagnolo, con un valore di 63.838,8 euro. Ed è un magnete della produzione industriale e dell’innovazione e con ottime infrastrutture ammodernate. I suoi settori di forza sono il settore industriale e il settore turistico. Infatti è una delle principali aree industriali dell’Europa meridionale, infatti sono presenti molti distretti industriali. In questi anni ci sono due tentativi di ottenere l’indipendenza dal governo centrale spagnolo, nel 2015, con un referendum tacciato di incostituzionalità, e un altro il 1° ottobre 2017, svolto in maniera illegale e caratterizzato da episodi di violenza, con lo sgombero dei seggi elettorali da parte della polizia spagnola e arresti. Infatti secondo la Corte Suprema spagnola entrambi i referendum violano l’art. 155 della Costituzione Spagnola del 1978. Protagonista e promotore di questo referendum era l’allora Presidente della Generalitat de Catalunya Carles Puigdemont, membro del JxCAT (Junts per Catalunya), che si era preparato a prevedere e ad annunciare per il 10 ottobre 2017 il giorno dell’indipendenza della Catalogna. Ma il governo spagnolo, all’epoca presieduto da Mariano Rajoy, ritiene il referendum come “non svolto” in quanto svoltosi incostituzionalmente ed illegalmente.

A seguito di questi eventi, la Catalogna viene commissariata fino alle successive elezioni, e Puigdemont condannato dal Tribunale superiore di Madrid, ma poi fuggito prima in Belgio, poi in Germania e alla fine in Sardegna per evitare la prigione. Altri leader indipendentisti sono stati condannati fino a 13 anni di prigione. Alla sentenza sono seguite manifestazioni nella città di Barcellona e in altre città europee, per protestare contro le sentenze di condanna dei leader indipendentisti. Con l’avvento del governo Sánchez nel 2018 e l’alleanza tra PSOE e Podemos, è cambiata leggermente la situazione, con un tentativo di mediazione tra il Governo e la Catalogna, concedendo un’ampia autonomia amministrativa e politica, e con l’indulto e la scarcerazione dei leader catalani promotori dell’indipendenza. Infatti Puigdemont è stato scarcerato e messo in libertà in Sardegna dalla Corte di Appello di Sassari.

Facendo una riflessione, la questione catalana non è stata affrontata in maniera tenace e determinata, in quanto Puigdemont non è un eroe nazionale, in quanto la Catalogna non è una regione oppressa, gode di uno status speciale amministrativo e politico, ma sta applicando la c.d. “Secessione dei ricchi” (Viesti 2019), in ragione della sua situazione economica per il suo importante PIL regionale, che costituisce una grossa percentuale sul PIL della Spagna, determinata dal malcontento dovuto alla crisi e alla diminuzione delle risorse pubbliche. Non si sa come la sinistra di molti Paesi europei sia rimasta abbagliata dalle idee di Puigdemont, in quanto se si va ad analizzare nel profondo il suo partito (visita in Germania al da parte sua al leader tedesco dell’AFD, la foto con Farage al Parlamento Europeo) e poi nel suo programma di transizione repubblicana prevedeva che il potere giudiziario dipendesse dall’esecutivo e poi ci sono state remore e dichiarazione suprematiste nei confronti dei catalani non indipendentisti. Successivamente, durante l’esilio in Belgio fondò un Consiglio per la Repubblica, che è stato un flop, per opporsi al commissariamento della Comunità e diceva che doveva essere presieduto solo da lui senza elezioni e votazioni e nella quale si applicherebbero politiche di stampo neoliberista. Questo fa capire l’essenza del personaggio e del partito, che non ha nulla a che fare con l’idea di democrazia, uguaglianza, giustizia sociale, ideali capeggiati dalla sinistra. Nemmeno l’atteggiamento del governo spagnolo è stato saggio, perché una questione spinosa non si risolve con la violenza e la repressione, ma con tentativi di mediazione determinanti e di dialogo e con una visione di lungo periodo, senza ricorrere né all’accentramento di tutti i poteri né ad un ampio e largo regionalismo. Resta ancora una questione irrisolta e senza via d’uscita, e dipenderà molto sia dal governo centrale sia dalla Generalitat de Catalunya, e come si dice, “ai posteri l’ardua sentenza”.

In foto: Manifestazione in Catalogna (credit: Külli Kittus)